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BUJA

I cjastenârs tal cûr

“... mi pâr che Buje e sei un pont di chest mont...
che a Buje a vivin umigns come in altris lûcs ancje lontans;
duncje la vite dal mont e jè ancje a Buje...”
(A.Negro-l. cjanton.: Buje; SFF 1971)

"solo chi ha un villaggio vivente nella memoria è un cosmopolita” (Ernesto De Martino)

“Sette colline non più alte di m. 332 s.m. e ammantate  di castagni, ontani e acacie, emergenti da una larga pianura in gran parte coltivata a mais e frumento e solcata da filari di viti, il resto prato erboso, irrigato da quattro corsi d'acqua il Corno, il Cormor, il Ledra e il Riogelato e da qualche rigagnolo scendente giù dai colli.” Così descriveva Buja il plevano arciprete Angelo Cracina nel momento del suo commiato nel 1982.
E duecento anni prima nel 1791 due vicari suoi predecessori parlavano di una Buje “composta di dodici contrade separate tra esse, con frapposizione di colline e boschi, torrenti e rii, strade e situazioni alpestri” che dovevano girare “anco di notte tempo...traversando li torrenti in distanza di due miglia e più”!.
E anche se il primo documento scritto che parla di Buja (Buga) risale al 792 d.C. o forse al 983, a Pidicuel c'erano i primi insediamenti umani nel periodo neolitico  e,  subito sopra, il Cjastelîr di Vals, la più antica fortificazione della collina di Monte,  è dell'età del bronzo. La storia di Buja è tutta dentro la storia del Friuli: prima i Celti, dopo i Romani e soprattutto i Longobardi lasciano segni che possiamo ancora rintracciare nel paesaggio  e nella toponomastica. 
Dopo il dominio del Sacro Romano Impero Germanico, sarà proprio durante il periodo del grande Patriarcato di Aquileia che  la Comunità di Buja nel 1371 si doterà dei suoi           “Statuta Communitatis Bujae”  redatti da un “gruppo di lavoro” composto da bujesi, quindi approvati  dalla assemblea dei capifamiglia (Vicinia) e ratificati dal delegato del Patriarca. Gli Statuti attribuivano agli organi della Comunità Bujese  autonome e dirette competenze in varie materie dalla agricoltura ai pascoli sui terreni comunali, alla pesca nel Ledra, dal commercio ai mercati e alle misure, e poi in materia di viabilità, confinazione, annona, finanze locali, formazione delle cernide (le milizie paesane) e amministrazione della giustizia... ma i primi due articoli erano dedicati ai bestemmiatori e ai giocatori d'azzardo !!!
L'autonomia amministrativa concessa dagli statuti fu sostanzialmente rispettata  anche durante il dominio della Repubblica di Venezia e,  seppur fra dispute e contenziosi, anche dai Savorgnan che   della Serenissima furono a lungo luogotenenti in quel di Buja.
Secoli duri e drammatici : “la tamesade dai turcs, la gjandusse-peste buboniche, il grand taramot dal 1511”; la vita del popolo e dei contadini segnata da carestie e grande miseria;  fra confraternite religiose e studi notarili, dispute per il quartese  e processi dell'inquisizione per “stregoneria”; la popolazione di Buja alla fine del 1600 era di circa 2.500 abitanti.
Solo nel 1800 la polazione di Buja supererà i 5 mila abitanti: intanto dopo le guerre napoleoniche anche i Bujesi erano diventati sudditi dell'impero austro-ungarico; il Regno d' Italia arrivò qui solo nel 1866; ma i legami con l'area germanica e danubiana e con quella  slava e balcanica continueranno intensi e significativi fino alla scoppio della prima guerra mondiale. Nell'ottocento accanto ai mulini e ai battiferro continua e cresce con alterne fortune  l'attività delle fornaci artigianali fino alla costruzione della grande fornace industriale a fuoco continuo “il pravilegjo di Urbignà”. 
E' questa anche l'epoca delle grandi migrazioni: definitive nel sud del Brasile e stagionali nelle Germanie e nell'area danubiana: uomini soprattutto ma anche donne e bambini a lavorare sulle fornaci o nell'edilizia; se da una parte è l'epoca dei “capuçats” e di una dura scuola del lavoro per i minori,  dall'altra è  quella della conoscenza delle conquiste sociali dei lavoratori negli stati della mitteleuropa: anche a Buja nasce la Società Operaia di Mutuo Soccorso ed Istruzione e una scuola di disegno tecnico per i ragazzi prima dell'avviamento al lavoro. Lo scoppio della prima guerra mondiale fa rientrare a Buja migliaia di emigrati che, senza lavoro e senza pane, daranno vita a proteste popolari e otterranno l'apertura di cantieri di lavoro, alcuni dei quali, come quelli della ferrovia,  riprenderanno con scarsa fortuna anche dopo i disastri provocati dalla guerra: il tram a Buja resterà un sogno mai realizzato, se non nei carri del carnevale!
La guerrà porta non solo distruzione e violenza e tanti giovani uomini morti sui vari fronti, ma, con l'invasione austriaca dopo Caporetto, anche la dura strada della fuga e della profuganza e la disgregazione delle famiglie e delle comunità.
Dopo la guerra, che ha decimato la produzione industriale e agricola, riprenderà l'emigrazione, questa volta verso occidente, nel nord-ovest dell'Italia e in Francia.
Quando nasce il regime fascista sarà proprio a Buja che si progetta e si organizza il primo attentato contro Mussolini: l'attentato fallirà ma, nonostante la retorica della propaganda fascista, resterà un segnale di libertà e di ribellione e del sotterraneo silenzioso diffuso rifiuto della dittatura.
Poi anche  Buja soffrirà gli orrori della seconda guerra mondiale con i suoi giovani figli mandati dal fascismo a morire in Jugoslavia, in Albania, in Grecia, in Russia. E poi l'invasione tedesca e cosacca, con il Friuli annesso al Reich nazista e la stagione difficile della Resistenza  e della Liberazione, con la Brigata Rosselli che raccoglieva partigiani garibaldini e osovani, uniti dal comune impegno, ideale e militare, della difesa del territorio e della conquista della libertà e della democrazia.
Tra le loro fila anche molti giovani che già dalla fine dell'estate del 1944 si ritrovavano per dar vita alla “Accademia Bujese degli Accesi”, una straordinaria esperienza civile ed artistica che  ridava vigore alla cultura friulana con genialità versatile e  curiosità cosmopolita.
Ma anche questo secondo dopoguerra vide i bujesi riprendere la strada della emigrazione non solo verso l'Europa Occidentale (Francia,Svizzera,Germania) ma anche verso il Sud America (Venezuela in primis) e l'Australia e la migrazione interna in Piemonte e Lombardia: ancora muratori e fornaciai, molte giovani donne, operai ed artigiani.
La popolazione di Buja, che aveva superato le 10 mila unità, scende a poco più di 6 mila. 
L'emorragia migratoria rallenterà solo con la nascita delle nuove aziende industriali  alla metà degli anni 60.
Ad imprimere un cambiamento determinante al volto di Buja, con un salto drammatico e improvviso sarà il terremoto del 1976: assieme alle case sembra cancellarsi una struttura che nei secoli si era venuta costruendo e che apparentemente si modificava molto lentamente. In un giorno solo si saltano cent' anni. Dopo l'intensa e partecipata vita comunitaria delle tendopoli e delle baraccopoli, la ricostruzione delle case fu affrontata con il tradizionale coraggio e  la riconosciuta  capacità edilizia.
Il tessuto delle borgate riapparve, ma radicalmente diverso;  nell'ultimo ventennio scompaiono negozi e botteghe artigiane, le piazze si trasformano, l'agricoltura e l'allevamento diventano attività economiche marginali e le latterie sociali turnarie chiudono i battenti; sorgono i primi centri commerciali e crescono le aree destinate agli insediamenti industriali. Per molti anni queste sembrano solo le conseguenze inevitabili delle “magnifiche sorti e progressive” di uno sviluppo inarrestabile e di una crescita senza limiti.
Il paese reale in cui oggi viviamo deve forse riannodare i fili con il suo passato se vuole costruire speranze concrete per il futuro dei suoi figli.

Guglielmo Pitzalis